
Like a cheetah
Roscoe Pondexter non era altissimo. Due metri e 01, dicevano le guide, una roba giusta per il suo ruolo di ala. Però era grosso. Tanto grosso. E con la faccia da cattivo. In giro per Roseto inceneriva con terribili occhiatacce quelli che lo guardavano troppo insistentemente. “Non devi arrabbiarti”, lo rassicuravano, “ti guardano perché sei alto”. “No”, bofonchiava lui, “mi guardano perché sono nero”. La cordialità non era esattamente la sua qualità più spiccata. Quella mattina Pondexter era sul pianerottolo a metà tra il suo appartamento e quello di Rita Giunco. Piedi scalzi, canottiera bianca che conteneva a malapena due deltoidi grossi come palle di cannone, slip. Nient’altro. Rita, sull’uscio di casa sua, se la rideva: “Roscoe, ma che ci fai sulle scale in mutande?”. Lui, divertito: “Ruìcia, tu non piace mie gambe?”. Chiamarle gambe era riduttivo, i quadricipiti del colosso/molosso erano grandi come il mio torace. Io ero lì, imbarazzato e anche un po’ preoccupato. Il bronzone di Riace in canottiera già di suo non era rassicurante. In più, mi avevano affidato un incarico che non mi lasciava affatto tranquillo.
24 ORE PRIMA
La mattina precedente, Vittorio Fossataro mi aveva convocato in sede. “Devi fare una cosa importante. Domattina scade il permesso di soggiorno di Doris, la moglie di Pondexter. Tu la vai a prendere a casa e la accompagni a Teramo, in Prefettura. Non devi preoccuparti di nulla, lei ha tutti i documenti pronti, conosce gli uffici e sa già cosa deve fare. La porti a Teramo, la riaccompagni a casa e stop”. Vittorio, per quei due o tre che non lo sanno, era un dirigente storico di Roseto. Rita Giunco era la segretaria della Società. La famiglia Pondexter (Roscoe, Doris e il piccolo Jason; Quincy, futura star dell’Nba, e Myisha non erano ancora nati) era stata alloggiata nell’appartamento sopra a quello di Rita. Era settembre o forse ottobre del 1982. Roseto pochi mesi prima era tornata in serie A2 dopo 25 anni, il nuovo sponsor Cover Jeans aveva la faccia simpatica di Mimmo Colatriano, in città c’era grande fermento. Gli americani “Sly” Norris e Pondexter facevano sognare i tifosi. “Va bene”, dissi a Fossataro, “ci penso io”.
ALL’UNA? IMPOSSIBILE
Doris era un pezzo di donna alta forse un metro e 75. Fisico da fotomodella. Pelle color ebano. Bellissima. Dicevano che le sue lezioni di aerobica, nella palestra del prof. Giancarlo Verrigni, riscuotessero un successone. Se il marito non passava inosservato, figuriamoci lei. Roscoe, Rita e io eravamo lì sulle scale ad aspettare. Finalmente scese. Capelli nerissimi e lunghissimi, raccolti in infinite treccine rasta. Truccata impeccabilmente. Abitino variopinto, corto fino a ben sopra il ginocchio. Scarpe rosse tacco 12, che la rendevano alta almeno come me. Uno schianto. “I’m ready!”, disse, sorridendo a 32 denti. Ovviamente bianchissimi, che te lo dico a fà. Bacetto di prammatica col marito. Poi lui cambiò espressione, si fece serio, mi guardò fisso. E fissando me, col suo vocione baritonale si rivolse a sua moglie. In italiano, per essere certo che io capissi. “Doris, prima dell’una a casa”. Il tono non ammetteva repliche. Istintivamente, guardai l’orologio. Più tardi, sulla mia Dyane 6 di allora, esternai a miss Roseto la mia preoccupazione: “Doris te lo dico, è impossibile che torniamo all’una, per quell’ora non ce la faremo mai!”. Lei non si scompose, anzi sorrise: “Questo è tuo problema, non mio”. Accelerai.
GHEPARDO O PANTERA
Arrivammo, la feci scendere davanti alla Prefettura, aspettai. Tornò, tutta frettolosa: “Devo fare fotocopie. Ma presto!”. Ti pareva che non ci fosse un intoppo. C’era una fotocopiatrice pubblica in fondo a Corso San Giorgio, sotto i portici di Fumo. Forse qualcuno se la ricorda. Ci avviammo a passo svelto. Cioè, io mi avviai a passo svelto. Lei, nonostante i tacchi, prese proprio a correre. “Doris, aspettami!”. “Corri! Fa bene a cuore!”. E certo, come no. Correva come una dannata. Io solo due anni prima avevo rischiato di perdere la gamba sinistra, non so se mi spiego. Ma il problema vero era che sul Corso di Teramo c’erano parecchie persone che conoscevo, magari dell’ambiente del basket. E tutte, dopo aver strabuzzato gli occhi alla vista di Doris, tentavano di fermarmi per capire chi era quella panterona nera e per guardarla più da vicino. “Scusami, abbiamo fretta!”, rispondevo io, arrancando per tenere il passo dell’afroamericana con le treccine. Arrivammo in fondo al corso. “You run like a cheetah”, le dissi ansimando. Succedesse oggi direi “like a panther”, sarebbe anche più in tema con Roseto. Lei faceva le fotocopie e rideva.
COME STA TUA MADRE?
Tornammo che l’una era passata da pochi minuti. Il tempo di farla scendere e me ne andai, il ritardo era lieve ma non mi andava di incrociare lo sguardo truce di Roscoe. Molti anni dopo, Rita mi disse: “Ma lo sai che ho rintracciato Doris su Facebook? Sta bene e ricorda sempre volentieri l’anno di Roseto”. Le chiesi l’amicizia anch’io, poi le scrissi su Messenger. Di quel giorno ricordava tutto. Mi scrisse che voleva tornare in Italia col figlio Quincy, per fargli vedere dove aveva giocato suo padre. Ma il progetto non è mai andato in porto. Un giorno mi scrisse: “Come sta tua madre?” Che stranezza. Mia madre, com’è ovvio, Doris non l’aveva mai neanche lontanamente conosciuta. “E’ morta da anni…”. “Oh… I’m sorry. She was a lovely woman”. Chissà con chi mi stava confondendo. Chiusi la conversazione, con un po’ di tristezza.
Ho conosciuto Pondexter. Nel 1982 lavoravo in banca a Roseto. Mi faceva paura.
Meglio non litigarci… un giorno racconteremo cosa gli accadde quando tornò negli Usa