
FLASHBACK
La finale invisibile (4. fine)
L’assedio durò più di tre ore. Nel piccolo spogliatoio la temperatura era equatoriale, tra vapore delle docce e finestre chiuse i giocatori erano più sudati di prima. I dirigenti di Palestrina ci fecero salire al piano di sopra, dove avevano la sede. E lì, asserragliati come Davy Crockett a Fort Alamo, aspettammo pazientemente. Non so quanti fossero i tifosi in assetto di guerra, fuori, ansiosi di regolare i conti. Forse non tutti e ottocento quelli che avevano visto la partita. Ma di sicuro non era il caso di uscire prima che arrivassero i rinforzi. Ulteriore problema era rintracciare Giovanni l’autista, che si era rifugiato col pullman chissà dove. Con noi a rischiare il linciaggio c’erano anche gli arbitri. Uno dei due, Garsia di Modena, aveva un’espressione di dolore sul volto e zoppicava. Non era scappato abbastanza velocemente.
L’allenatore di casa, Beniamino Scarinci, era affranto. Non solo per il risultato, anche e soprattutto per l’invasione di campo, l’aggressione a squadra ospite e arbitri, l’assedio. Era chiaro che le conseguenze a livello di provvedimenti disciplinari sarebbero state gravissime. E’ scomparso da più di qualche anno, ne ho un bellissimo ricordo.
Era un grande gentleman, coach Scarinci. Un vero uomo di sport. La mattina dopo la partita mi telefonò a casa -non esistevano i telefonini- che ancora dormivo. “Scusa per l’ora, di Roseto avevo solo il tuo numero (nde: era con me che si sentiva per lo scambio di informazioni sulle squadre da affrontare, nel 1988 non c’era la disponibilità online dei filmati delle partite e si usava ancora così). Volevo sincerarmi che il viaggio di ritorno fosse andato bene”. Dopo una sconfitta così dolorosa, non so quanti altri sarebbero stati lì a preoccuparsi della nostra incolumità.
LA FUGA – Finalmente arrivò altra forza pubblica. Ormai era quasi buio, ma parecchi esagitati erano ancora lì fuori ad aspettarci. E non certo per complimentarsi. Scendemmo. Fuori c’erano tre cellulari dei carabinieri che ci avrebbero portati in salvo. Protetti da un’intera squadra in tenuta antisommossa, con caschi, scudi e manganelli, salimmo in fretta sui furgoni. Gli assedianti urlavano che non finiva lì e che ci avrebbero inseguiti fino in capo al mondo.
I cellulari imboccarono sgommando una stradina sterrata. La percorremmo a tutta velocità. Capimmo che i militi volevano far perdere le nostre tracce a eventuali inseguitori, ma così rischiavamo di schiantarci a ogni curva. “Ah marescià”, disse il dott. Battista al carabiniere che guidava, “Ce semo sarvati dai tifosi inferociti, nun è che adesso ce fai morì su sto cazzo de furgone”.
CARNEVALE – La folle corsa si concluse alla Stazione dei carabinieri di San Cesàreo, paese a una decina di km. da Palestrina. Lì avevano scortato anche il pullman. Oltre a Giovanni l’autista ritrovammo anche Gianni Vincenti, che all’arrivo ovviamente aveva evitato di entrare in palestra insieme alla squadra. Si era presentato da solo e aveva guardato la partita indisturbato, nessuno lo aveva associato a noi.
In caserma cominciarono ad arrivare le telefonate da Roseto. Romano Chiappini (vice presidente) e Vittorio Fossataro (giemme), trepidanti, si informavano sulle condizioni di salute dei ragazzi. Aureli, da capitano, andò a parlare per tutti. Tornò nella stanza (senza sedie) dove eravamo accampati e riferì: “Mi ha detto Fossataro che da noi è un tripudio. Cortei di auto, clackson, bandiere, Roseto sembra Rio de Janeiro”. I giocatori si guardarono: reduci da una fuga avventurosa per le campagne laziali, stanchi, sudati, sdraiati sul pavimento con le borse come cuscini, ancora senza cena. Altro che carnevale.
A notte fonda potemmo finalmente riprendere la via di casa. I carabinieri però ritenevano che il pericolo di agguati al pullman non fosse del tutto scongiurato, così ci scortarono fino al casello e anche per un tratto di autostrada. Efficienti e scrupolosi.
LO SCHERZO – Questa fece il giro del mondo. I tifosi di Roseto ci aspettavano all’uscita dell’autostrada, per festeggiare. E la mente diabolica di Antimo Di Biase, che una ne pensava e 100 ne faceva, escogitò uno scherzo micidiale. Matteo il masseur tirò fuori fasce e cerotti e ci truccò tutti da reduci di guerra: chi col braccio al collo, chi con le bende in testa, chi coi cerotti in faccia, mancavano solo le stampelle. Sembrava che ci avessero suonati come zampogne.
All’arrivo del pullman i rosetani, che generosamente avevano portato pizze e birre per rifocillare la squadra, esplosero in un boato. Ma l’urlo gli si strozzò in gola. Il primo a scendere fu Willy Battistoni, bendato e zoppicante. Poi tutti gli altri, fasciati e incerottati. Per qualche secondo gli ultrà ci cascarono: “Madonna, li hanno massacrati…”.
Ma presto bende e cerotti volarono in aria, tra le risate generali. I 10 eroi si concessero all’abbraccio, poi in un baleno divorarono le pizze.
EPILOGO – I festeggiamenti durarono a lungo, tra cene, premiazioni e partite celebrative. Ma l’abbraccio coi tifosi in autostrada rimase il momento più autentico. Le medaglie ricordo non ci facevano dimenticare com’eravamo partiti 10 mesi prima: in ritiro a Isola del Gran Sasso con la squadra ancora largamente incompleta, circondati dallo scetticismo generale, col solo Giovanni Giunco che credeva fermamente nel suo progetto e Domenico Sorgentone che parlava di B1 nonostante fosse circondato da ragazzini.
Sono tornato a Palestrina da avversario 29 anni dopo, nella stagione 2016-17. Allenavo Teramo in serie B. Non si giocava più nel piccolo impianto di quella volta, ma al Pala Iaia. Prima della partita Mauro Braghese, il loro diesse, mi portò sotto la gradinata: “Vedi? Questi erano i tifosi del Club ‘Stato di ebbrezza’, erano tutti presenti quella volta e io ero uno di loro. Solo che avevamo 20 anni e adesso ne abbiamo 50”. Ricordavo benissimo lo striscione con la scritta “Stato di ebbrezza”. Strinsi una decina di mani e incassai sorridendo un paio di goliardici “Ma che cazzo hai scritto su er sito de Maggitti, avemo fatto un po’ de bordello, ma mica così grave come hai scritto te!”.
La “finale invisibile”, oltre a unire strettamente tutti noi che l’avevamo vissuta, ci aveva assegnato uno status indelebile, quello di reduci. Anni dopo Raffaele Battista, orgogliosamente, ancora mi diceva: “Ricordati Pietro, noi siamo quelli di Palestrina”.
