
Mamma, non ti conosco!
Era diventato un incubo. Partivamo a fare allenamento in 12 e di colpo ci ritrovavamo con uno in meno. Arrivava il momento del 5c5 e improvvisamente restavamo in 9. La categoria era importante, la Società si compiaceva di avere un consulente ortopedico in aggiunta al medico sociale. Ma per una stagione intera, non ci fu verso di fargli capire (all’ortopedico) che le visite o le terapie ai giocatori andavano fatte o PRIMA o DOPO l’allenamento. Non DURANTE. Lui arrivava, prendeva quello che aveva male al ginocchio o alla spalla e se lo portava dentro in infermeria, senza dirmi nulla. Nel bel mezzo dell’allenamento. Non gli entrava proprio in testa, nonostante le mie pazienti spiegazioni, che il lavoro era organizzato a terzetti, quartetti o quintetti e che così mandava tutto a puttane. Senza contare l’assurdità di far interrompere la seduta a un giocatore per visitarlo. Misi una semplice regola: “Il primo che segue il dottore in spogliatoio, prima lo prendo a calci nel culo poi lo multo”. Ovviamente, quello “strano” ero io.
Qualche anno prima, categoria leggermente più bassa. C’era un dirigente “novizio” e molto invadente. Uno di quelli che non sanno nulla dell’ambiente, ma invece di arrivare in punta di piedi si presentano con gli anfibi. Il tipo veniva a vedere gli allenamenti con sua figlia piccola, convinta che papà l’avesse portata al circo. La tesorina, incolpevole e inconsapevole, alla prima occasione entrava in campo. Un paio di volte andò persino a spostare i palloni già pronti per l’esercizio. Sforzandomi di non diventare comunista (rosso paonazzo lo ero, ma per la rabbia. Però la simpatica esserina giuro che non l’avrei mai mangiata) dissi al papà: “Tu credi che noi qui ci stiamo divertendo e che quei palloni sono sistemati a casaccio, vero?”. Mi feci un nemico in casa. Fino al termine della stagione.
Ultimo ma non ultimo. Ci allenavamo in un Palas dove sotto la tribuna c’era la palestra -credo- della ritmica. A metà del nostro allenamento arrivavano i genitori a riprendere le ragazzine. Passavano una prima volta a bordo campo per entrare, poi di nuovo per uscire. La seconda “passata” era un trionfo di chiacchiere ad alta voce, risate, racconti di com’era andata e via così. Ovviamente il baccano distruggeva l’atmosfera di concentrazione del mio allenamento e interrompeva le mie indicazioni. Un giorno presi uno dei genitori, quello che urlava più forte, e gli dissi: “Tu, si proprio tu. Che lavoro fai?” Lui, sorpreso: “L’architetto, perché?”. Io: “E ti risulta che io sia mai venuto nel tuo studio di architettura a romperti i coglioni mentre stai lavorando?”. Attimo di silenzio. Poi i genitori si avviarono tutti verso l’uscita, borbottando -sempre ad alta voce- su quanto fossi “strano” e maleducato. Non erano neanche lontanamente sfiorati dall’idea che i disturbatori erano loro. Notabene: quelli ai quali suona strana la frase “sto lavorando”, in genere sono gli stessi che se perdi due partite ti urlano “vattene a casa”.
Ancora adesso, con le giovanili, provo ad allenare la mentalità e a trasmettere l’idea del “focus” sull’allenamento, senza distrazioni e senza parlare con nessuno che non sia l’allenatore o i compagni. Per dare l’esempio, dico così: io in campo non conosco neanche mia madre.