Il dio pallone

Altra incursione nel calcio. E’ la terza, mi sembra. Lo spunto me lo dà il libro “Nel fango del dio pallone”, di Carlo Petrini. L’avete letto? Altro che cinico blues, è un autentico pugno nello stomaco. Petrini è stato un calciatore di serie A e B negli anni 60-70. Ha giocato in molte squadre, tra le altre Genoa, Milan, Torino, Roma. E’ morto a 64 anni, stroncato da un tumore al cervello, dopo una vita passata a dilapidare soldi in donne e auto di lusso, segnata da tragedie (la più grande: la morte di suo figlio 19enne) e vissuta pericolosamente tra partite truccate, scommesse clandestine, doping. “Nel fango del dio pallone” è una denuncia cruda e spietata del malaffare che albergava all’epoca nel mondo del calcio, inquinato da farmaci proibiti, pagamenti in nero, accordi sottobanco sui risultati. Ho scritto “all’epoca” perché non ho titolo per dire se oggi è ancora così. Ma Petrini, coraggiosamente, tratteggia anche la bassezza morale di una certa tipologia di calciatore, quella alla quale lui stesso apparteneva: viziato, spregiudicato, mercenario, senza scrupoli, interessato solo alla bella vita, al sesso con chiunque capitasse a tiro e alle auto di grossa cilindrata. Cosa c’entra col basket? Personalmente ho sempre ritenuto il cosiddetto “attaccamento alla maglia”, così sbandierato negli sport di squadra e così invocato dagli ultrà, un concetto molto retorico, troppo romantico e sorpassato dalle logiche del professionismo. Per questo, tra le tante “sentenze” intrise di cinismo che Petrini sputa a denti stretti nel libro, ce n’è una che mi ha colpito più delle altre: “Mi facevano un po’ pena i tifosi, convinti che noi giocatori fossimo legati alla maglia. Noi eravamo legati al contratto, l’attaccamento alla maglia era a pagamento”. Sipario.

Il dio pallone

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