
Russel & son
Boston, fine anni ’50. I Celtics che stavano per dare vita alla celebre “Dinasty” (la Dinastia, così fu ribattezzato lo squadrone leggendario che vinse 8 anelli Nba consecutivi), erano sul parquet del Boston Garden per l’ultimo allenamento prima di una partita in casa. C’erano tutte le star di quella formazione irripetibile: Bob Cousy, Tom Heinsohn, Bill Sharman. L’allenatore era Red Auerbach, col suo inseparabile sigaro. E c’era ovviamente Bill Russell, il centro difensivo più forte dell’Nba. L’uomo per il quale la Ncaa (il campionato universitario) anni prima aveva allargato le dimensioni dell’area, nel tentativo di limitarne lo strapotere vicino al ferro. Quel giorno Bill aveva portato con sé l’anziano papà, al quale era molto legato, per farlo assistere all’allenamento. Russel senior era un signore semplice, ma dignitoso, cresciuto negli anni feroci del razzismo nei confronti della popolazione di colore. Nel 1959 le discriminazioni razziali (e i privilegi per i bianchi) erano ancora in pieno vigore. Al vecchio Russell in realtà il basket interessava il giusto. Suo figlio aveva già vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi (Melbourne 1956) con la Nazionale Usa, ma per lui era sempre il suo ragazzone, alto quasi 7 piedi (circa due metri e 10), che si guadagnava da vivere saltando più in alto di quel canestro lassù. L’allenamento terminò, i giocatori si infilarono sotto le docce. Il papà di Bill aveva curiosato un po’ in giro, esplorato i corridoi del Garden, sbirciato negli spogliatoi. Poi però era scomparso. Russell figlio, preoccupato, cominciò a cercarlo dappertutto. Alla fine lo trovò. Era accovacciato in un angolo e piangeva. A Bill si fermò il cuore. “Papà, che succede? Perché piangi, ti senti male?”. Il vecchio lo rassicurò. “Sto bene”, disse. “E’ solo che non pensavo mai di vivere abbastanza da vedere un ragazzo bianco e uno nero fare la doccia insieme”.