
Le mani addosso
La colpa è nostra. Voglio dire, di quelli che allenano -o hanno allenato fino a qualche anno fa, come nel mio caso- dalla B in giù. Ci siamo inventati questa immagine, “le mani addosso”, per descrivere sinteticamente tutto quello che è aggressività difensiva. E la situazione ci è sfuggita di mano. Non a tutti, eh? Ci sono quelli che sulle mani addosso hanno costruito una carriera. La situazione è sfuggita di mano a quelli come me, a cui piace l’aggressività ma non il wrestling.
GRIDO D’ALLARME
Da buon boomer, ricordo il grido d’allarme lanciato da Gianni Menichelli (era un giornalista geniale, scomparso prematuramente) dopo gli Europei del 1973 a Barcellona. “Se continua così -scrisse- i Marzorati e i Sergej Belov andranno a scopare il mare e sarà tutto un fiorire di Edesko e Paulaskas”. Ovvero: porte chiuse ai giocatori di classe e talento e via libera ai mazzolatori. Proprio in conseguenza di questa deriva da arti marziali, venne introdotta la regola dei falli di squadra. Ovvero, da un certo numero di falli in poi sono sempre due tiri liberi. Altrimenti squadre come l’Unione Sovietica, con 2-3 giocatori forti e 9-10 fabbri intercambiabili (e quindi in teoria 36-40 falli da spendere senza uscire) potevano permettersi il lusso di randellare gli avversari impunemente.
TACKLE SCIVOLATO
Questa invece è successa a me, l’ultimo anno che ho allenato a livello senior. Prima di campionato, giochiamo in trasferta, a 4’ dalla fine siamo +17. La squadra di casa, senza più armi tecniche o tattiche efficaci, per tentare una rimonta disperata fa l’unica cosa che si può fare in questi casi: bagarre, caccia all’uomo camuffata da pressing tutto campo, botte da orbi. Gli arbitri ingoiano letteralmente il fischietto, non chiamano più nulla. Si girano dall’altra parte persino quando uno di loro fa un vero e proprio tackle scivolato su uno dei miei (non scherzo, ho ancora il filmato), mandandolo a sbattere contro la panchina. Morale: andiamo ai supplementari, quelli decimati -incredibilmente- siamo noi, perdiamo.
PACK LINE DEFENSE
Quell’anno -coach Giorgio Salvemini se lo ricorderà, era lui che mi ispirava- volevo giocare Pack Line Defense, una difesa più contenitiva che aggressiva, con l’obiettivo di non subire penetrazioni al ferro e disinnescare il penetra e scarica. Ci avevamo lavorato tutto il precampionato, ma dopo quella incredibile sconfitta alla prima giornata cambiai idea in tre secondi. “Vogliono la guerra?”, dissi alla squadra. “L’avranno”. Facemmo una settimana di allenamenti feroci, il 5 contro 5 sembrava una tonnara. Alla seconda vincemmo in casa contro una delle favorite per la A2, saltandogli addosso (altro che contenimento) e aggredendoli senza pietà.
IL METRO
Il punto era proprio quello: con un metro arbitrale così tollerante, incapace di distinguere i contatti che procurano un vantaggio illegale alla difesa da quelli che non procurano alcun vantaggio, rinunciare alle “mani addosso” non pagava. Era assai più premiante perquisire il palleggiatore fin sotto la maglietta, stuprare il malcapitato che si avventurava in area, abbracciare vistosamente il tiratore per impedirgli di uscire dai blocchi, cacciare i gomiti in gola a chi ti contendeva un rimbalzo e così via. E gli arbitri? Generalmente incapaci di stroncare i primi accenni di gioco duro e quindi soggetti a lasciarsi sfuggire di mano la partita. Anche perché, secondo me, c’è un tratto inconfondibile che distingue l’arbitro insufficiente: ignora le randellate e fischia i sospiri. NB: lo spazio qui sotto, dove c’è scritto “Lascia un commento”, serve a lasciare commenti.