FLASHBACK

La finale invisibile (3.)

Il riscaldamento si svolse in un clima rovente, al limite dell’intimidazione fisica. I dirigenti di Palestrina, nel tentativo di stemperare gli animi, consegnarono ai nostri mazzi di fiori da lanciare sugli spalti in segno di distensione. I fiori erano biancoazzurri, legati con un nastro arancio-verde. Ma l’idea di mescolare i colori sociali delle due squadre non servì a placare gli animi, sulle gradinate del piccolo impianto (lo vedete in foto) c’erano ottocento prenestini incazzati come lupi. L’unico che ebbe il coraggio di avvicinarsi agli spalti per lanciare il mazzo di fiori al pubblico fu Antimo. Sì, Antimo Di Biase, l’uomo che più mi fece disperare quell’anno benedetto. Dio sa quanto vorrei che fosse ancora qui, a combinare i suoi casini imperdonabili. Non riuscì a lanciare i fiori. In realtà non riuscì nemmeno ad avvicinarsi alle transenne, la gente per poco non gli saltava addosso. Tentativo di distensione miseramente fallito, guerra doveva essere e guerra fu.   

Loro andarono con Rossi, Tomassi, Barraco, Kadir, Santoro. Noi: Melioli, Battistoni, Stama, Palermo, Aureli. Si, eravamo la squadra più bassa del campionato. Stama (1.90) marcava le ali di duemetri. Aureli (1.97 e un passato da esterno) rendeva sempre almeno 7-8 centimetri ai centri avversari. Palermo doveva vedersela coi “4”, tutti più alti di lui. Però in campo volavamo.

Oltre ai primi cinque giocarono Di Biase e Sandrone Fanna, l’uomo bionico, che resistette stoicamente al dolore per una caviglia gonfia come un cocomero. Per i giovani Faraone (20 anni), Battista-figlio (19) e D’Emilio (19), fatalmente, in una partita come quella ci sarebbe stato spazio solo in caso di estrema necessità.

Aperta parentesi: ora Dante Battista fa l’ortopedico e Carlo D’Emilio il dentista. Ditelo ai pappamolla di oggi che “Non vengo all’allenamento perché devo studiare”. Chiusa parentesi.

Il piano partita di Domenico Sorgentone era il solito capolavoro di tattica. Anche a livelli più alti non ho mai conosciuto nessun altro che prepara le partite così. Gli “one on one” delle loro due punte di diamante, Tommy e Peppe, si infransero contro il muro delle nostre rotazioni difensive. Maurizio Palermo saliva a prendere i rimbalzi fino in cielo. In campo aperto Melioli, Stama e Battistoni sembravano le frecce tricolori. A metà campo giocammo con una fluidità impressionante. Altro che tensione da playoff. In quella bolgia dantesca, l’impresa di restare calmi e lucidi la facemmo noi.

All’intervallo eravamo avanti di 8. All’inizio del secondo tempo (i quattro quarti sarebbero arrivati solo 12 anni dopo) piazzammo un break terrificante e volammo a +17. Palestrina era in ginocchio. Io quasi non ci credevo. Per qualche attimo feci anche la “somarata” di perdere il contatto mentale con la partita e mi sorpresi a contare i minuti che mancavano, sperando che finisse presto.

Il pubblico schiumava rabbia. Realizzammo di aver vinto quando Marco Aureli, che non aveva certo il tiro pesante tra le sue specialità, mise una tripla. Non ci giurerei, ma mi sembrò di sentirlo sghignazzare: “La bomba…!”, col suo tipico accento cantilenato pesarese.

Verso la fine Palestrina risalì a -12, ma ormai era fatta. Mentre si giocavano gli ultimi, inutili spiccioli di partita pensavamo solo a come guadagnare gli spogliatoi. Di fronte a noi e alla nostra sinistra decine e decine di tifosi prenestini, in preda a furore cieco, erano in piedi a bordo campo, pronti all’invasione.

A pochi secondi dalla fine Palestrina segnò l’ultimo canestro, quello che fissava il punteggio finale sull’82-92 per noi, con un irreale 3 contro 0. Non c’era difesa, perché i cinque in campo quatti quatti si stavano prudentemente avvicinando all’uscita. Ovviamente anche noi in panchina già da qualche secondo ci preparavamo a scattare verso il tunnel. Alla sirena finale, o forse qualche attimo prima, sprintammo puntando gli spogliatoi. E in quel preciso istante si scatenò l’inferno.

Vidi con la coda dell’occhio l’orda urlante che invadeva il campo. Misi la lavagnetta sulla testa e corsi più veloce che potevo. Sentii distintamente tre o quattro tonfi sordi sulla lavagna: dagli spalti piovevano monete, accendini, bulloni, di tutto.

I tifosi di casa ci raggiunsero proprio all’ingresso del corridoio degli spogliatoi. Per fortuna c’erano i carabinieri a proteggere la ritirata. Lo scontro fu simile a quelli tra le fanterie nemiche che si vedono nei film. I militi resistettero all’urto. Qualcuno di noi era già in salvo, altri no. Tra i ritardatari c’era Dante Battista, ormai circondato: lo salvò un ufficiale dell’Arma, strappandolo ai teppisti con una serie incredibile di mosse tipo arti marziali. Mentre ero ormai nel corridoio vidi Matteo Fusco, il masseur, che era scivolato andando a sbattere sulla gabbia dei palloni. I prenestini gli erano già addosso per prenderlo a calci. Tornai indietro e afferrai la sua mano tesa, trascinandolo fuori dalla mischia.

Fallito il primo assalto, un altro gruppo di tifosi tentò di raggiungere gli spogliatoi passando dall’ingresso opposto. Per fortuna la porticina era stretta, ci passava una sola persona per volta: l’incauto che provò a entrare per primo si trovò si fronte i 100 chili di muscoli di Maurizio Palermo, che non a caso avevamo ribattezzato “massiccione”. Palermo colpì il malcapitato con un destro in pieno petto, mandandolo a gambe levate. Con l’aiuto dei dirigenti di Palestrina ci barricammo dentro. Ci contammo. Eravamo tutti. Tranne qualche graffio stavamo tutti bene.

Badammo a stare lontani dalle finestre, fuori quelli che avevano promesso sassate stavano mantenendo la parola. Potevamo finalmente abbracciarci, pazzi di gioia. E il piccolo spogliatoio di Palestrina rimbombò delle nostre urla di vittoria. (3. Continua)

La finale invisibile (3.)

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6 commenti su “La finale invisibile (3.)

  1. La scena nel corridoio degli spogliatoi con Palermo è stata un po’ più articolata e, col senno di poi, ridicolmente più surreale e meno violenta. Posso testimoniare perché eravamo spalla a spalla in quel momento… 😉

      1. Caro Piero, il tuo racconto mi ha fatto tornare indietro negli anni e visto che quella sera il fatto l’ho vissuto in prima fila, aggiungo qualche dettaglio per chi vuole la versione “live” della scena.

        Al fischio finale siamo partiti tutti di corsa verso l’ingresso del corridoio, quello sotto la tribuna principale. Nel frattempo, il pubblico locale ha deciso che era il momento giusto per ribadire quanto poco apprezzasse la nostra impresa e si è creato un imbuto di gente dove si mescolavano noi, arbitri, staff, forze dell’ordine e un assortimento di tifosi che oscillavano tra la poesia e l’aggressione: urla, spintoni, insulti, mani addosso. Una festa insomma.

        Entrato nel corridoio, mi trovo accanto a Maurizio Palermo. Ora, per chi non conosce la fauna della nostra squadra, io sono due metri di ossa e leve, lui un metro e novantadue di granito e intenzioni notoriamente poco negoziabili. Il corridoio era stretto, tanto che più di due giocatori affiancati non ci passavano e noi due eravamo un ostacolo naturale di discreta qualità.

        A pochi metri dallo spogliatoio, vediamo il custode del palazzetto davanti a noi che, con l’audacia di chi non ha valutato bene le conseguenze, toglie il chiavistello e apre la porta che collega il fondo del corridoio con l’androne. Tempo zero ed ecco che un esagitato alto un metro e un barattolo entra urlando “AAAAAAAH, SPACCHIAMO TUTTOOOH…” mentre il custode, folgorato da improvvisa prudenza, si nasconde dietro la porta.
        La scena era surreale: dietro la porta spalancata c’è un oceano di teste che spinge ma non entra, perché il corridoio era stretto e noi due occupavamo tutta la larghezza.

        Sotto i nostri sguardi, l’esagitato si ferma di colpo a 10 centimetri dal petto di Maurizio. Prima gli guarda i pettorali poi, alzando lo sguardo, il volto (presumo poco rassicurante) e poi, girando la testa il mio: posso testimoniare che in quegli occhi ho visto la vita passargli davanti.
        La metamorfosi è stata immediata: da tifoso invasato urlante a gentiluomo di sportività. Si sposta di lato, due colpetti sulla spalla di Maurizio e un “Avete vinto, bravi, bravi…” sussurrato con tutta la tenerezza possibile.

        Maurizio, nella sua proverbiale delicatezza, lo afferra per un braccio (o forse gli da una manata, non ricordo bene) e facendolo girare su se stesso lo fa volare verso l’uscita con una frase che qui traduco in versione educata: “Caro signore, la invito a tornare sui suoi passi prima che io mi senta lievemente contrariato”. Diciamo che l’originale era più diretto… 😉

        Io intanto faccio segno al custode di seguirlo e richiudo la porta con il chiavistello. Solo allora siamo entrati nello spogliatoio, dove siamo rimasti fino a notte fonda, aspettando che la quantità di forze dell’ordine aumentasse abbastanza da garantire un’uscita in sicurezza.
        Alla fine siamo usciti interi e con due punti pesantissimi in tasca.

        Premetto solo una cosa, ma la dico alla fine. Dopo tutti questi anni la mia memoria potrebbe aver deciso di darsi un tono artistico, magari qualche dettaglio si è ingrandito e qualcuno si è ristretto; ma la sostanza resta uguale e, purtroppo, è successo davvero.

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