
Romantico, cinico, X
Ho sentito Alberto Bucci dire che l’amicizia tra i giocatori è determinante. Portò ad esempio la zona match-up della sua Enichem Livorno: un rompicapo difficilissimo da attaccare, peggio che risolvere un’equazione a tre incognite. “In realtà”, disse Bucci, “le regole di quella difesa erano poche e semplicissime. A fare la differenza era l’affiatamento tra i giocatori, che comunicavano a gran voce, si scambiavano i compiti anche improvvisando e modificavano le regole in base alla situazione. Così non si capiva nulla di come funzionava la nostra difesa. L’unica cosa certa è che funzionava alla grande”. Senza il rapporto di amicizia tra compagni di squadra, diceva il coach, non sarebbe stata la stessa cosa. E questa è la versione “romantica”. Poi c’è una versione “cinica”. Ho sentito Mike D’Antoni dire che quello che conta non è l’amicizia, ma l’interesse comune. “Ho visto vincere squadre”, sosteneva Mike, “con gente che si odiava. Ma in campo collaborava, perché senza collaborazione non si vince e vincere conveniva a tutti”.
LA TERZA VIA
Ognuno sceglie la “sua” verità. Personalmente, faccio fatica a pensare di poter collaborare con un tizio che ha la maglia uguale alla mia, ma mi sta sui maroni. Però gli amici te li scegli, i compagni di squadra no. Quando allenavo i senior, ho sempre detto: “Se perdiamo e tu sei contento lo stesso perché hai fatto 20, non hai capito niente. Se vinciamo e tu hai le palle girate perché hai fatto virgola, non hai capito niente. Se un compagno sbaglia e tu anziché incoraggiarlo sbraiti, non hai capito niente. Se non vedi la palla tre azioni di fila e alla quarta spari un tiro senza logica, non hai capito niente”. Si, forse ero un po’ empirico. Ma in tempi recenti, dopo la versione romantica di Bucci e quella cinica di D’Antoni, ho scoperto la terza via. Che probabilmente è quella giusta.
SEMPRE LUI
Indovina un po’ da chi l’ho imparata? E che te lo dico a fa? Sempre lui, solo lui, nessun altro che lui: il “volpone” argentino Julio Velasco. Niente romanticismo, niente cinismo. La soluzione di Velasco è semplicemente razionale. “E’ vero”, dice Julio il Grande, “ci sono squadre che hanno problemi interni allo spogliatoio e giocano bene lo stesso. Ma questo non accade perché prevale l’interesse comune. Anzi, ad alti livelli l’interesse individuale è altissimo, i giocatori sono vere e proprie aziende con fatturati elevati. Eppure giocano di squadra”. Perché? Semplice: “La collaborazione non è un imperativo ‘etico’. I giocatori non collaborano perché sono bravi ragazzi o perché si vogliono bene. La collaborazione è parte del gioco. I giocatori devono collaborare perché è così che si gioca, punto. E’ un elemento che non va lasciato alla volontà dei giocatori, ma va allenato come qualunque altra parte del lavoro. Ed è esattamente a questo che serve il coach”. In altre parole, dire “passa la palla a chi è libero” è né più e né meno come dire “distendi il braccio quando tiri”, è un’istruzione tecnica. Mi torna in mente Ettore Messina: “Dovunque ho allenato, la parte più difficile era sempre convincere le persone a giocare senza egoismi”. Ma perché il basket è questo, non perché sto giocando con mio fratello.
LA PIZZA
E l’amicizia tra compagni di squadra? Se c’è è meglio, chiaro. Se stanno bene insieme e dopo l’allenamento vanno a mangiare la pizza, è un valore aggiunto. Ma la chiave non è quella. La chiave è avere ben chiaro cosa significa collaborazione e lavorarci quotidianamente, sul campo. Sennò poi va a finire (mi è successo…) che a mangiare la pizza ci vanno, ma in campo la palla non se la passano lo stesso.