Tra due fuochi

Chiusura in bellezza. Nel sottolineare le difficoltà che incontrano gli istruttori delle giovanili, potevo limitarmi a puntare il dito contro i ragazzi, la scuola e le famiglie? Certo che no, ce n’è per tutti. Per cominciare prendo in prestito una frase di Dino Zoff, si riferisce al calcio, ma il principio è uguale: “Quando per giocare paghi, salta la legge del campo. Quella che il più forte vince”. L’ha detto Zoff, eh? Ora, io lo so perfettamente che le società vivono con le quote versate dalle famiglie. E’ con quelle che coprono le spese federali, con quelle pagano i compensi agli istruttori. Anche il mio. E so pure che la prassi di pagare una certa cifra per “iscriversi” a un settore giovanile è ormai consolidata, tanto da non poter più tornare indietro. Fatto sta che 20 anni fa per giocare non si pagava. Tranne il Minibasket: lì pagare non faceva una grinza, trattandosi a tutti gli effetti di una scuola per l’avviamento alla pallacanestro. Ma una volta cominciata la fase dell’agonismo (13 anni) stop alle quote, i soldi per coprire le spese arrivavano da altri canali. E al settore giovanile non ci si “iscriveva” pagando. Si veniva selezionati (magari dopo un provino) se gli istruttori ravvisavano determinate caratteristiche. Chi non veniva preso andava a fare un’altra cosa, per la quale magari era più portato, e non moriva nessuno. La pratica sportiva per tutti? In un mondo perfetto dovrebbe pensarci la scuola. Pubblica.

AGONISMO O INCLUSIONE

Pagare per giocare è la negazione dello sport agonistico, perché mette tutti sullo stesso piano. Nel momento in cui si paga una quota, stabilire le gerarchie diventa difficile. Lo sport agonistico è selezione, che nelle giovanili -ci mancherebbe- non può essere esasperata come a livello senior, ma comunque c’è. Vince la squadra più forte, vince chi si allena meglio, gioca quello più bravo. E’ così, è nella natura delle cose. Una volta non ci si scandalizzava per questo. Adesso? Adesso il politicamente corretto ha rilanciato l’idea di sport inclusivo. Porte aperte a tutti, nessuno escluso. A discapito della qualità del lavoro. E ovviamente dei risultati, in termini di miglioramenti dei giovani giocatori. Ma va bene, è questa la nuova frontiera? Perfetto, seguiamola! A una condizione, però. Tutti si mettano bene in testa che agonismo e inclusione sono incompatibili. L’uno esclude l’altra, tutt’e due insieme non si possono fare. Decidiamo di fare sport agonistico? Bene: a 15 anni (non più tardi) bisogna che si cominci a dare un’impronta. Selezionare i migliori, formare gruppi non troppo numerosi, esigere che l’atmosfera degli allenamenti sia più rigorosa. I più bravi si allenano con i più bravi. La linea della società è di fare sport inclusivo? Benissimo, si prendono in squadra tutti. Ma si dica chiaramente che l’obiettivo rientra nel campo del sociale, non del risultato sportivo. E soprattutto nessuno si azzardi a pretendere che i settori giovanili formino e producano giocatori. Andiamo signori dirigenti, bisogna scegliere. E poi essere coerenti con la scelta.

L’AMBIGUITA’ DEI CLUB

Invece che fanno molte Società? In questo equivoco tra agonismo e inclusione ci sguazzano. Non prendono posizione, restano volutamente nell’ambiguità tra le due soluzioni. E poi vogliono la botte piena e la moglie ubriaca: far salire a bordo tutti, ma proprio tutti (basta che paghino) e nello stesso tempo aspettarsi buoni risultati. Ve la sputo papale papale: troppo spesso l’apertura allo sport inclusivo è solo di facciata, un’operazione di immagine. In realtà è solo una scusa per incassare più quote possibili.

TRA DUE FUOCHI

L’istruttore quindi è stretto tra due esigenze opposte e inconciliabili: fare pallacanestro, e quindi avere come obiettivo quello di creare giocatori di pallacanestro, ma nello stesso tempo far divertire tutti, puntando sulla socializzazione. Come dire cornuto e mazziato. Il bello è che se uno poco poco prova a fare selezione, i sacerdoti del politicamente corretto se lo mangiano: “Sacrilegio! Lo sport è inclusione! Non bisogna escludere nessuno!”. Poi però, fateci caso, ogni volta che la Nazionale tipo fa cilecca agli Europei, o non si qualifica per le Olimpiadi, puntualmente riparte la tiritera: “Per forza! Nei settori giovanili si lavora male, non produciamo più giocatori!”. Ora, io non sono più di primo pelo e non allenerò in eterno. In più sono diventato intollerante come una suocera, poi pure da giovane mi dicevano che ero strano, insomma la cosa non mi riguarda più. Ma gli istruttori giovani, pieni di energia ed entusiasmo, quelli che aspirano a costruirsi una carriera, di fronte a queste evidenti contraddizioni avrebbero tutto il diritto di dire: “Si ma allora che caxxo volete da me?”.

THE FINAL CUT

…Che non è l’ultimo gatto. Ero partito, più di un mese fa, raccontando che quando convocavo i giovani in prima squadra me li ritrovavo così somari da non resistere alla tentazione di insultare i loro istruttori. Poi ad allenare i giovani ci sono andato io. E ho capito. Ora quando sento che nei settori giovanili si lavora male, non si allenano i fondamentali, non si costruiscono giocatori, reagisco in un solo modo: rido.  

Tra due fuochi

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